Zeppo non c’è.

C’erano una volta i sei fratelli Marx, quattro dei quali fecero cinque film poi restarono in tre e ne fecero altri otto. In questo articolo vintage, colpevolmente scritto senza Groucho e i suoi fratelli a portata di mano (e Luca potrà corriggermi se canno), faccio due passi in quel bosco narrativo che è la filmografia marxiana, vecchia di un secolo ormai ma con elementi virulenti che la rendono attualissima.

Oltre al classico martelliano – da leggere nonostante l’editore – segnalo come costante nota a piè di pagina anche il Castoro di Andrea Martini, a suo tempo rimediato in edicola con L’unità grazie a una vecchia iniziativa del direttore Veltroni. Con a suo tempo intendo la metà degli anni Novanta, quando si celebrò il centenario del cinema e Vieri Razzini propose su RaiTre, nottetempo, una retrospettiva commentata coi primi sette film dei fratelli. Commenti belli che hanno offerto lo spunto per queste righe. Razzini sostiene che l’inizio della fine, per i Marx, è A Day at the Races (1937). La mia tesi scombiccherata, e in quanto tale marcsiana, è che la fine cominci con la scomparsa di Zeppo.

I tredici film coi Marx sono così suddivisi. I primi cinque furono a marchio Paramount, a cominciare da The Cocoanuts (1929), girato a New York dove i fratelli erano impegnati a Broadway nelle repliche di Animal Crackers, destinato a diventare il loro secondo film. Le pellicole Paramount sono celebri per i loro riferimenti bestiali: dopo l’adattamento cinematografico di “Crackers” (1930) arrivarono infatti Monkey Business (1931), Horse Feathers (1932) e Duck Soup (1933, di Leo McCarey). Un intervallo di due anni segnò il passaggio – autentica promozione hollywoodiana – alla MGM, per la quale realizzarono A Night at the Opera e “Races” (1935, 1937, entrambi di Sam Wood), poi At the Circus (1939), Go West (1940) e The Big Store (1941). Nel 1938 una parentesi RKO per Room Service, peraltro l’unico film coi Marx non scritto pensando ai Marx. Irrilevante. Gli ultimi due titoli, produzioni minori distribuite dalla United Artists, furono A Night in Casablanca (1946) e Love Happy (1949). Per maggiori dettagli nozionistici, cliccare Imbd. Basti dire, nelle parole di Razzini, che la seconda parte della loro produzione è all’insegna di una triste decadenza.

Triste soprattutto se paragonata all’impeto col quale irruppero sul grande schermo sul finire degli anni Venti. Per quanto filmicamente rudimentali, un po’ per budget un po’ per l’evidente origine teatrale, i primi due exploit dei Marx sono tuttora un toccasana. A colpire non è solo il surrealismo incarnato da Harpo, evidente trait d’union tra il muto e il sonoro, ma soprattutto l’aggressione verbale di Groucho (powered by Arthur Sheekman), una mitraglia di calembour e atteggiamenti schizoidi che fanno a pezzi le regole sociali, infrangono la quarta parete, saltellano da un livello metanarrativo all’altro. Un’aggressione feconda diretta alla corteccia cerebrale, ogni tanto tentata dall’alzare bandiera bianca lasciandosi cullare non più dal verbo ma dai sinuosi zigzag corporei dell’uomo col baffone finto. Groucho si lancia nelle scene con stivali da cavallerizzo, sigaro inquisitore e la schiena gobba, come un ariete, si lancia contro tutto e il contrario il tutto, anche contro sé stesso, e gli unici che riescono a far breccia in questo buco nero di nonsense sono proprio i suoi fratelli. Il candore onnivoro e strabuzzato di Harpo, la faciloneria di Chico, nei cui tranelli di strada Groucho cade come una pera cotta (succede in particolare in “Races”, secondo Razzini un errore di scrittura). Zeppo, più giovane, belloccio e inevitabilmente “straight man”, partecipa meno alle gag, eppure è irresistibile quando in “Crackers” Groucho gli detta la lettera – poi rimasticata da Totò e Peppino -, improbabile poi in “Feathers” nei panni di suo figlio tardone che flirta con la vedova del campus.

Con tutto che contiene battute colonialiste non raffinatissime, il che lo banna per sempre da qualsiasi arena estiva, Animal Crackers è ancora oggi un concentrato di anarchia, severamente vietato a chiunque abbia disturbi dell’attenzione. Per una volta, l’esibizione al piano di Chico non è mera bravura riempitiva bensì innesco di una sequenza complessa, dadaista, esilarante nella sua spietata ripetitività. Il finale, poesia pura, spicca tra i titoli Paramount in quanto visivo, cinematografico, non affrettato come gli altri. L’unico spettacolo teatrale dei Marx non trasformato in film è I’ll Say She Is, di cui esiste solo una sequenzina in rima girata per il film promozionale The House That Shadows Built (1931), biglietto da visita dello star system Paramount.

Monkey Business, il primo film-film del quartetto, è insolitamente fiacco e troppo infantile nel mettere in scena Harpo. Di buono c’è il ricorso a un’unica canzone come filo rosso, in questo caso la parodia di You Brought a New Kind of Love to Me di Maurice Chevalier. Escamotage che trova la sua migliore realizzazione in “Feathers” mediante Everyone Says I Love You eseguita da tutti, a turno, cominciando da Zeppo. “Tutti dicono che ti amo” è stata poi ripresa da Woody Allen nell’omonimo film del 1996, suo ennesimo omaggio al quartetto e soprattutto a Groucho, dal quale Allen come attore ha copiato spessissimo mosse e birignao – in particolare dal Groucho gigione dei film MGM.

In tema di canzoni, impossibile non citare i due inni di Groucho, Hello, I Must Be Going (da “Crackers”) e Whatever It Is, I’m Against It (da “Feathers”), mai più eguagliati nelle produzioni MGM sempre più improntate al musicarello puro. E parlando del periodo 1932-1933 va citato anche il radiodramma (per modo di dire) Flywheel, Shyster and Flywheel, con Groucho e Chico, pubblicato da Bompiani come Legali da legare.

La guerra lampo dei fratelli Marx, questo il titolo adattato in Italia nei primi anni Settanta, merita in pieno il suo status leggendario per il semplice fatto che finalmente sceneggiatura, corpi e macchina da presa si sincronizzano in maniera esplosiva. Sono settanta minuti scarsi senza pause né pietà, niente Harpo all’arpa, niente Chico che cala l’indice sull’ultimo tasto del piano. La musica c’è ma è corale, un sabba quasi, coi quattro fratelli impegnati in contemporanea al banjo.

Dopodiché, Zeppo scompare. Con “Opera”, pellicola citatissima per via della sequenza della cabina strapiena, i Marx ridotti all’essenziale s’inseriscono in un ingranaggio spettacolare più grande – e meno divertente – di loro. Certo, restano i caratteri, resta la lingua di Groucho non sempre servita al meglio dallo sceneggiatore di turno, resta la sua spalla più importante, Margaret Dumont (l’ineffabile, dice Razzini), che a detta di Groucho non ha mai capito le sue battute – forse la più incompresa tra le sue battute geriatriche. La Metro Goldwyn Mayer infila il trio in una ruota da criceti in cui si ripetono vecchi schemi, si visitano luoghi già ampiamente visitati – ma la sequenza in nave è almeno migliore di quella in “Business” – e si va incontro, questa una novità, a un gran finale produttivamente ambizioso. Sia esso all’opera, all’ippodromo, su un treno del West o in un enorme grande magazzino che sembra una casa delle bambole. La comicità dei protagonisti si cartunizza sempre di più. Al posto di Zeppo, in “Opera” e “Races”, tale Allan Jones dalla voce tenorile che con la sua presenza guasta ogni singolo fotogramma. Un dramma.

Rispetto alla solidità di A Night at the Opera, A Day at the Races contiene ancora un pizzico dell’antica anarchia. Lo si vede nella brutale sequenza medica con la povera Dumont sballottata sul lettino, o perfino nell’incontro fiabesco tra Harpo e la comunità nera degli slum. Anche in questo caso ti saluto arene estive, dato che Harpo funge da pifferaio (ed è facile completare la metafora) e la lunghissima sequenza musicale si conclude con un triplice blackface carpiato. Harpo perde la corsa ma vince a causa di uno scambio di cavalli, da sempre oggetto di suo incondizionato amore, e questa vittoria sporca assomiglia al finale di “Feathers” coi buoni che vincono a football americano infrangendo qualsiasi regola o fair play. “Opera” resiste di più nell’immaginario collettivo grazie alla potenza di alcune gag, prima fra tutte il contratto stracciato, forse lo zenit della carriera di Chico.

A partire da At the Circus, la discesa è ripida, la ripetizione pedante. Si salva la sequenza in treno con la visita al vagone del nano, nel finale tornano i trapezi già visti in “Opera”, ma è evidente che la benzina è agli sgoccioli. Go West rasenta l’inguardabile, con l’eccezione forse dell’arpa ricavata dal piano rotto. L’esibizione musicale in sé si salta a piè pari. The Big Store, che sembra precorrere Jerry Lewis, spadella una lunga sequenza con una famiglia italiana – e altri nuclei “etnici” – antiquata e offensiva, bruciando peraltro la carta a lungo rimasta nel mazzo dell’incontro tra Chico e i suoi compaesani. Groucho, in vena di nostalgie radiofoniche, si chiama Flywheel.

Quanto alle ultime due fatiche, e devono esserlo state davvero per i poveri Marx, “Casablanca” è un disperato tentativo di piaciucchiare ripescando l’attore “tedesco” di “Opera” e “Races”, Sig Rugman, ma l’esito è piatto eccezion fatta per la prima apparizione di Harpo appoggiato a un edificio… per evitarne il crollo. Love Happy viene giustamente ricordato solo per la presenza lampo di Marilyn Monroe agli esordi. Film, questi, fatti per coprire i debiti di Chico, giocatore d’azzardo incallito. E fa tristezza vedere come il livello della comicità dei Marx finisca per assestarsi proprio sul personaggio di Ravelli/Chicolini/Baravelli, una suburra senz’ironia a cui manca lo sguardo curioso e partecipe di Fellini.

I Marx hanno avuto una lunga carriera televisiva ben testimoniata da questa playlist. Nel 1961, Harpo ha rotto il silenzio senza rompere il personaggio pubblicando con l’aiuto di Rowland Barber un memoir dal titolo Harpo Speaks! I guizzi di Groucho l’hanno accompagnato fino all’Oscar alla carriera. Consola pensare alla costante dei decenni di magra marcsiana, all’assenza che ha contraddistinto il loro passaggio da rivoluzionari a icone stinte. Zeppo non c’è.

[ultime righe di Harpo Speaks!, 1961]