safer love


Leggendo How to Survive a Plague di David France (Picador, 2016) mi sono imbattuto in un documento risalente ai primi anni dell’Aids. Si tratta di How to Have Sex in an Epidemic, libercolo di quaranta pagine spillate a cura degli attivisti Michael Callen e Richard Berkowitz, col contributo scientifico del dottor Joseph Sonnabend. Al link soprastante potete scaricarlo in pdf e leggerlo con gli occhiali di oggi. Spoiler necessario per concentrarsi su tutt’altro: è il primo pamphlet che consiglia l’uso del preservativo per arginare l’epidemia.

A France devo la visione di un documentario candidato agli Oscar quasi dieci anni fa, tra i migliori a raccontare lo scoppio dell’epidemia in America e la reazione politica dei pazienti, che sotto l’egida di Act Up riuscirono a fare egemonia culturale e a ottenere risultati concreti. Ogni volta che lo vedo zigo come un cinno. E nel 2015 ho avuto il privilegio di vederlo a Berlino in un’aula universitaria della HU, in presenza di Peter Staley. A fine proiezione mi alzai, mostrai la mia maglietta da attivista, gli diedi dell’eroe, gli attaccai bottone a fine evento e trascorsi la serata con lui e alcuni amici a zonzo in piena primavera. Staley appartiene a quella generazione di attivisti e PLWHA che ha visto la morte in faccia, ha saputo reagire ben convogliando la rabbia e la paura e che, dopo il 1996, con l’introduzione della terapia efficace, ha resistito anche alla cosiddetta sindrome del resuscitato. Non solo. Senza Staley, il discorso sulla PrEP in America non sarebbe maturato in tempi così rapidi. E ancora oggi è sulle barricate, magari su instagram con un bicchiere di vino mentre conversa di covid insieme a Fauci, o tramite le colonne di un giornale da cui lancia il progetto vaccinale Pepvar. Un vissuto americanissimo il suo, d’oltreoceano anche in senso metaforico per sofferenza accumulata, stress psicofisico e previdenza di lusso.

E tutto americano è anche il tomo di France, uscito a quattro anni dal documentario e con lo stesso titolo. Ma con respiro storico e scientifico – pur in un’ottica divulgativa – molto più ampio. Sono seicento e passa pagine in carattere mignon, novanta delle quali di note. Dentro c’è tanta narrazione, come si suol dire, ritorna l’agiografia di Staley dai toni feuilletoneschi, ma soprattutto emergono sfumature, e sbavature, inevitabilmente restate sul pavimento della sala di montaggio del film. L’autore ha vissuto quegli anni da giornalista e da giovane gay in una New York devastata dall’insorgere dei casi di sarcoma di Kaposi e rare polmoniti. E come giornalista con grande attenzione alle fonti, e mirabile tenacia nel ricostruire gli eventi incrociandoli col proprio diario, France offre ritratti cubisti delle persone che hanno fatto la storia dell’Aids in America. Larry Kramer, carismatico, strillante e umorale, Staley broker “nell’armadio”, la gelida ambizione del dottor Fauci e le sue iniziali cantonate in tema di prevenzione, le piccinerie del dottor Gallo in lizza sia con Montagnier, sia con l’onestà intellettuale. Per chi non ha vissuto quegli anni sulla propria pelle è importante sapere che il test hiv, introdotto nel 1985, era tutt’altro che preciso (colpa di Gallo, che resta tuttavia un genio della ricerca), veniva evitato come la peste e che per orgoglio nazionale le autorità statunitensi fecero di tutto per ritardare l’approvazione di quello sviluppato dall’istituto Pasteur. Ce n’è per tutti, anche per gli eroi di questa nerissima fiaba proppiana. Basti dire che Act Up, con le migliori intenzioni, si spese per accelerare l’approvazione di farmaci come l’Azt, nocivi nei dosaggi previsti all’epoca. Oltre che insufficienti da soli. Ma questo lo si sarebbe capito, coi tempi della scienza, solo anni dopo, con la scoperta di una nuova classe di antiretrovirali e il lancio della teoria di combinazione che tuttora salva vite e restringe sempre più lo spread tra sieropositività e sieronegatività.

Con gli occhi di oggi è sempre dietro l’angolo la tentazione di confrontare le due pandemie in cerca di analogie e lezioni utili. In termini scientifici non mancano i punti di contatto, ma sul piano sociale e attivistico sono due pianeti di galassie diverse. Fino al 1982 quella che oggi è nota come Aids andava sotto il nome di Grid (Gay-Related Immune Deficiency) e in quanto tale si è fatto di tutto per spazzarla sotto il tappeto. A peggiorare la cosa era la misteriosità della nuova sindrome, tant’è per anni circolarono ipotesi diverse sulla sua origine. Prima di isolarne il virus e di studiarlo, una teoria sosteneva persino che lo stato immunodepresso derivasse da un’eccessiva esposizione allo sperma. In altre parole: che l’orgione degli anni Settanta avesse davvero generato una sorta di contrappasso bigotto. E in questo preciso contesto diventa interessante leggere How to Have Sex in an Epidemic. Partendo dalla fine.

La festa che sono stati gli anni Settanta è finita. Queste due pagine sull’amore arrivano in coda, addirittura interpolate all’ultimo momento. Il libello si apre con due citazioni in esergo (Susan Sontag, Hal David), prosegue con una prefazione disarmata del dottor Sonnabend e si lancia in un lungo elenco di attività sessuali proponendo metodi di riduzione del rischio. Ingenuamente, si raccomanda un “medically safe sex” oggi relativizzato dall’aggiunta della “r”. A pagina 15 compare per la prima volta la parola “rubber”, goldone, destinata a ripetersi a iosa – e a riscuotere un immediato successo, trattandosi di un sistema di prevenzione a basso costo. Al quale nessuno aveva pensato prima. Per frenare cosa, non si sapeva esattamente. Tant’è che il libricino di Callen e Berkowitz prende ossessivamente di mira il citomegalovirus, riscontrato in moltissimi casi.

Stampato a spese degli autori (e grazie a una colletta tra i pazienti di Sonnabend), il testo era stato concepito senza quest’ultimo capitoletto incentrato sulle emozioni. Le prime righe dei “pensieri conclusivi” ricordano il mottetto abrasivo che chiude Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (1971, occhio a 9’30”) di Rosa von Praunheim, quel “fuori dai cessi pubblici, tutti in strada!” che dieci anni prima aveva suonato il gong per il movimento LGBT tedesco occidentale. E al di là di alcune forse inevitabili cantonate giudicanti, il tentativo di introdurre (o riscoprire) l’etica nel sesso tra maschi è l’unico elemento concettuale che rende il libretto leggibile ancora oggi. Non come un monito, bensì come un appello accorato all’I Care, alla filosofia della cura. Verso sé stessi e gli altri. “Maybe affection is our best protection”.

Voltando pagina, si arriva all’ultimo capoverso che riporto di seguito. Quale che sia l’epidemia o la pandemia, la risposta sociale sull’onda di decisioni informate e di una limpida assunzione di responsabilità rimane la via maestra per uscirne insieme.